"Ulisse e le Sirene" di John William Waterhouse (1891)
"Odissea - Libro Duodecimo" Omero (versi 188-265)
Circe, non molto poi, da me rivolse
Per l'isola i suoi passi; ed io, trovata
La nave, a entrarvi e a disnodar la fune
Confortava i compagni; ed i compagni
V'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi
Fean co' remi nel mar spume d'argento.
La dea possente ci spedì un amico
Vento di vela gonfiator, che fido
Per l'ondoso cammin ne accompagnava:
Sì che, deposti nella negra nave
Dalla prora cerulea i lunghi remi,
Sedevamo, di spingerci e guidarci
Lasciando al timonier la cura e al vento.
Qui, turbato del core: "Amici", io dissi,
Degno mi par che a tutti voi sia conto
Quel che predisse a me l'inclita Circe.
Scoltate adunque, acciocché, tristo o lieto,
Non ci sorprenda ignari il nostro fato.
Sfuggire in pria delle Sirene il verde
Prato e la voce dilettosa ingiunge.
Vuole ch'io l'oda io sol: ma voi diritto
Me della nave all'albero legate
Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo;
E dove di slegarmi io vi pregassi
Pur con le ciglia, o comandassi, voi
Le ritorte doppiatemi ed i lacci".
Mentre ciò loro io discoprìa, la nave,
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo
Delle Sirene all'isola pervenne.
Là il vento cadde, ed agguagliossi il mare,
E l'onde assonnò un demone. I compagni
Si levâr pronti, e ripiegâr le vele,
E nella nave collocarle: quindi
Sedean sui banchi ed imbiancavan l'onde
Co' forti remi di polito abete.
Io la duttile cera, onde una tonda
Tenea gran massa, sminuzzai con destro
Rame affilato; ed i frammenti n'iva
Rivoltando e premendo in fra le dita.
Né a scaldarsi tardò la molle pasta;
Perocché lucidissimi dall'alto
Scoccava i rai d'Iperïone il figlio.
De' compagni incerai senza dimora
Le orecchie di mia mano; e quei diritto
Me della nave all'albero legaro
Con fune, i piè stringendomi e le mani.
Poi su i banchi adagiavansi, e co' remi
Batteano il mar, che ne tornava bianco.
Già, vogando di forza, eravam quanto
Corre un grido dell'uomo, alle Sirene
Vicini. Udito il flagellar de' remi,
E non lontana omai vista la nave,
Un dolce canto cominciaro a sciorre:
"O molto illustre Ulisse, o degli Achei
Somma gloria immortal, su via, qua vieni,
Ferma la nave; e il nostro canto ascolta.
Nessun passò di qua su negro legno,
Che non udisse pria questa che noi
Dalle labbra mandiam, voce soave;
Voce, che innonda di diletto il core,
E di molto saver la mente abbella.
Ché non pur ciò, che sopportaro a Troia
Per celeste voler Teucri ed Argivi,
Noi conosciam, ma non avvien su tutta
La delle vite serbatrice terra
Nulla, che ignoto o scuro a noi rimanga".
Cosi cantaro. Ed io, porger volendo
Più da vicino il dilettato orecchio,
Cenno ai compagni fea, che ogni legame
Fossemi rotto; e quei più ancor sul remo
Incurvavano il dorso, e Perimede
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi
Nodi cingeanmi, e mi premean più ancora.
Come trascorsa fu tanto la nave,
Che non potea la perigliosa voce
Delle Sirene aggiungerci, coloro
A sé la cera dall'orecchio tosto,
E dalle membra a me tolsero i lacci.
Commento:
Grazie alle istruzioni che Circe gli ha fornito, Ulisse, trascinato dal vento, raggiunge velocemente l'isola delle Sirene, improvvisamente il vento cessa e l'eroe greco molto astutamente scioglie della cera che poi spalma sulle orecchie dei suoi compagni, ai quali ordina di legarlo all'albero della nave con forti nodi. Durante il tragitto le Sirene tentano di attrarre i marinai verso l'isola con il loro canto, ma Ulisse è l'unico ad udirle e pur restando attratto da esse, riesce, tramite il suo piano, ad essere forzatamente impermeabile alla loro melodia. Con questo stratagemma l'equipaggio porta in salvo la nave remando e allontanandosi dall'isola.